Sull’opportunità di ritradurre il Don Chisciotte

 

In un borgo dell’agro-aversano, che non voglio ricordarmi come si chiama, viveva non è gran tempo un nobiluomo di quelli che hanno e lancia nella rastrelliera e un vecchio scudo, un magro ronzino e un levriere da caccia.

(trad. Alfredo Giannini)

En un lugar de la Mancha,

de cuyo nombre no quiero acordarme, no ha mucho tiempo que vivía un hidalgo de los de lanza en astillero, adarga antigua, rocín flaco y galgo corredor.

Attualmente il ruolo dei convegni universitari nella formazione di uno studente è al centro di numerosi e infuocati dibattiti nel mondo accademico. È però il caso di ammettere, oltre alla convalida dei 2 o 4 cfu, che questi comportano degli inconfutabili lati positivi. Il primo è che per i più audaci è un’occasione rinfoltire gli scarsi rapporti sociali, il secondo è che rende possibile a qualche faccia di culo di condividere una pausa caffè con una Lia Schwartz (e qui con “Lia Schwartz” intendiamo, oltre a una delle più grandi studiose della letteratura spagnola attualmente in circolazione, qualsiasi nome che noi poveri stronzi possiamo trovare solo sui libri), il terzo, e forse l’ultimo, quello di offrire parecchi spunti per il nostro angolo dei “pretesti”.

È quest’ultimo il caso che ha afflitto il nostro chisciottesco studente, che nell’ultimo trigesimo con obbligo di frequenza, attraverso legamenti neurologici de cuyo nombre no quiero acordarme, è giunto a chiedersi: è possibile tentare una traduzione totale del Don Chisciotte in una cultura diversa da quella che l’ha generato? Detto in soldoni, si può pensare di trasportare la storia e i caratteri di un Don Chisciotte in modo tale che non suoni italiano, ma che lo sia? (Adattamento).

Posto che di Cervantes ce n’è uno (e tutto il resto son nessuno) e che, almeno a livello teorico è tutto possibile e altrettanto lecito, mi è sembrato di capire, almeno nei limiti delle mie capacità attuali, che si tratterebbe di un’opera chisciottesca, ovvero difficilmente realizzabile sotto tanti punti di vista.

Non mi limiterò alle considerazioni ovvie (mastodonticità del lavoro, che tozza con gli impegni universitari, traduzioni più realizzabili e dal più sicuro interesse a livello editoriale, oltre all’immancabile fatto che anche noi abbiamo partner da sfamare e bisogni più impellenti).

Nei pochi righi citati in apertura (agro-aversano a parte, s’intende) tradotti da Alfredo Giannini tra il ’23 e il ’27 e riproposto almeno fino al 2009, tozziamo il nostro sbarbatello muso contro un grosso muro che non è solo meramente linguistico, e qui le domande fioccano come neve nelle domeniche d’agosto di Gigi D’Alessio.

Domanda numero uno (e l’ordine è di apparizione mentale, non va per importanza): le traduzioni invecchiano? Pare di sì, e certamente non siamo i primi a dirlo. La lingua è un’entità in continua evoluzione: nasce (da un’altra lingua), cresce, evolve (non “invecchia”) e in qualche caso muore. Ma se la lingua evolve e non invecchia, perché una traduzione dovrebbe invecchiare? Molto banalmente, possiamo considerare un testo (che sia traduzione o no) come una fotografia di una determinata realtà linguistica in un preciso luogo (l’altrimenti detto asse diatopico), momento (asse diacronico), espressa attraverso un determinato mezzo (asse diafasico) e/o da una determinata classe sociale (asse diastratico). Dunque mentre l’originale cristallizza la/e lingua/e dell’autore, la traduzione cristallizza la lingua del traduttore, e mentre Don Chischiotte sopravvive a Cervantes, il duro lavoro di Alfredo Giannini sopravviverà al suo autore nella misura in cui una casa editrice non decida di farci rimettere mano o qualche novello Don Chisciotte della traduzione italiana non ci lavori gratuitamente.

Fatto sta che, gratuitamente o no, non si sa per quanto ancora sia accettabile la costruzione -quasi arcaica- “e…e…” (e lancia nella rastrelliera e un vecchio scudo) laddove Cervantes attribuisce il possesso con “hidalgo de” seguito dagli oggetti separati da virgole (de lanza en astillero, adarga antigua), così come la scelta di “viveva non è gran tempo”, invece di una più semplice -oltre che a noi più simile- resa di “no ha[ce] mucho tiempo que vivía […]” con “non molto tempo fa viveva…”. Anche e soprattutto perché nella concezione di Cervantes, così come quella degli spagnoli di sempre, questo è a tutti gli effetti l’incipit di un’opera che -nonostante tutte le complessità- vuole essere raccontata come un fattariello.

Domanda numero due: tra la traduzione di Giannini e la trascrizione del testo originale notiamo un distacco tra “en un lugar de la Mancha” ed il resto del testo che non si limita ad una scelta grafica.

Certo, c’è da sottolineare anche una certa distanza cronologica tra la traduzione di Giannini del ’27 (ripropostaci paro paro fino ad anni più recenti, nonostante l’edizione Rizzoli del 2009 segnali l’aggiornamento della bibliografia critica fino al 2006) e la prima edizione critica per Catedra del ’77 a cura di John Jay Allen (attualizzata almeno fino al 2010 e basata sull’edizione curata dal “profesor Rico” per il IV centenario della prima stampa del primo volume del Chisciotte); quindi Giannini con buona probabilità poteva non avere accesso all’apparato critico di cui possiamo godere oggi.

Tornando al nostro spazio, nel testo spagnolo è volto a segnalare che la frase è in realtà riconducibile ad un verso di una “ensaladilla” (numerata 790 del Romancero General) e che doveva essere facilmente riconoscibile da parte del lettore contemporaneo all’autore.

Ora, anche se nell’edizione italiana avrebbe avuto poco senso sottolineare un distacco che non sarebbe stato riconosciuto dal lettore più attento, può valere la pena porsi il problema che si è posto Umberto Eco a proposito non della sua esperienza di traduttore, ma di autore tradotto. Detta in breve, secondo Eco una citazione fatta per essere riconosciuta andrebbe tradotta con un’altra citazione scelta per essere riconosciuta dal lettore-target e in modo tale da conferire all’opera o al personaggio l’effetto desiderato dall’autore… quando il traduttore se ne accorge!

Quindi, in quest’ottica, una traduzione improbabilmente corretta avrebbe potuto essere qualsiasi verso o citazione famosa che indicasse un luogo nella letteratura italiana, a partire da “Quel ramo del fiume Tajo” di stampo Manzoniano fino agli “ermi colli di Guadalajara” di rimembranze leopardiane. Questo è tanto per sottolineare come la traduzione non sia una scienza esatta, e come anche i poveri stronzi come il sottoscritto possano -sempre con la dovuta umiltà- mettere in dubbio le parole dei grandi.

Domanda numero 3: e con questo, lo giuro, concludo. L’agro-aversano (adattamento totale).

È ovviamente una provocazione che ha dell’assurdo, oltre che dell’ingenuo, ma con questo veniamo al punto della questione e al vero nocciolo della domanda a cui non sono riuscito (per ora) a darmi risposta. È possibile prendere la storia e farla diventare nostra? Come dicevo prima, teoricamente lo sarebbe, ma vorrebbe dire trasportare tutto l’impianto culturale che sorregge il Don Chisciotte e del quale si fa portatore. Il discorso parte dai suoi presupposti (cioè trasformare per tutta l’opera, come è stato fatto nell’incipit da Giannini un hidalgo in nobiluomo) , la geografia e la cultura di cui è intriso, sostituire i suoi refranes con i nostri proverbi (e Sancho Panza non direbbe più a cada oveja su pareja, ma ll’auciell’ s’apparano ‘n’cielo e ‘e cchiaveche n’terra) e così via.
Ma tra perdite e guadagni, il gioco vale davvero la candela?

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