Cristo col ciuffo – Ramón Gómez de la Serna (Da “Don Diego de Velázquez”)

 

 

Cristo con ciuffo[1]

 

Velázquez, più religioso che pittore religioso, ha, da vero spagnolo, il suo Cristo nello specchio dell’anima, e, siccome è un gran pittore che ha ritrovato sé stesso, ora più che mai, dopo il viaggio a Roma, nel ristabilirsi a Madrid realizza uno dei Crocifissi meglio riusciti della storia della pittura.

            Gli viene da dentro, ecco perché è così vero fuori.

            Il Cristo con la ciocca che gli ricade sul volto, come nell’acconciatura dell’agonia immortale, conserva l’impressionante silenzio della morte. È morto, o conserva ancora un anelito di concentrazione? Ma il Cristo è sempre vivo, e per questo si può resistere alla vista di un cadavere appeso ad una croce.

            Medita come nessun altro Cristo, quello di Velázquez, che, per accrescere l’ermetismo della meditazione, porta su metà del viso il velo dei suoi capelli neri.

            Velázquez gli diede il riposo supremo, e Lui, in cambio, lo salverà dall’oblio.

            Il Cristo crocifisso viene dal convento monacale di San Plácido. Questo crocifisso senza uguali fu ordinato a Velázquez dal re, forse come forma di compensazione per il chiacchierato scandalo che avvenne nel convento dell’Encarnación Benita de San Plácido, il cui responsabile fu la figura del protonotaro di Aragona (che pagò a Velázquez alcuni dipinti); è il caso di riportare quanto si diceva a corte, secondo quanto riporta l’estratto di un manoscritto contemporaneo di Mesonero Romanos:

Essendo il protonotaro di Aragona (Jerónimo de Villanueva, aiuto di camera di sua maestà e molto amico del conte-duca) patrono del convento dell’Encarnación Benita, giunto alla sua casa adiacente al convento (via de la Madera, numero 58) con il re, durante il tragitto dovette dirgli che nel suo convento vi era una bellissima dama, seppur religiosa. Il re volle vederla, e andò con Villanueva sotto mentite spoglie. Se ne innamorò, e, aiutato dall’astuzia del conte-duca e del protonotaro, ruppe la clausura passando per una cava comunicante tra la casa di questi e un’area del convento destinata all’immagazinamento del carbone. La bella monaca, avendo inteso le intenzioni del re, tra la timidezza e la risoluzione, ne mise al corrente la badessa, e questa, coraggiosa e incurante delle minacce dei due dei tre potenti, dispose nella cella della dama, la notte del primo appuntamento, un santo crocifisso reclinato camuffato da cuscini ai lati. Entrò per primo don Jerónimo, lasciando il re e il conte-duca nella casa a fianco, e alla vista di quello spettacolo, se ne tornò confuso e l’esecuzione del piano venne sospesa. Scoperto l’inganno, ebbe inizio il corteggiamento, che non poté restare segreto, arrivando all’intervento dell’Inquisizione. Lo scandalo crebbe e Roma mosse causa, e lì dovette recarsi il notaio del Consiglio, Alfonso de Paredes, il quale, al suo sbarco a Genova, fu arrestato e gli venne sequestrato un cofanetto contente la documentazione relativa ai fatti, e fu quindi fatto prigioniero. Una volta che le carte giunsero nelle mani del conte-duca, le portò a sua maestà e entrambi la bruciarono nel braciere della stanza del re. Il protonotaro era prigioniero a Toledo, dove rimase finché l’inquisitore generale dispose che a giudicarlo fosse un tribunale, composto dagli abati dei conventi più rispettabili di quella città affinché lo ammonissero, senza però sapere di cosa, e che lo assolvessero con la penitenza di digiunare tutti i venerdì per un anno, che non tornasse al convento e che donasse milleduecento ducati in elemosina. A tali condizioni i suoi incarichi gli sarebbero stati restituiti, con l’ordine preciso del re di non parlare mai con nessuno di questo evento, neanche con il conte-duca.

Questo è ciò che diceva la gente; ma fu un’altra la causa seguita dal Santo Offizio nei confronti delle monache di quel convento e di frate Francisco García Calderón, causa rumorosissima, in cui fu processato anche il protonotaro, e che durò dal 1631 al 1638, e, una volta passata alla giurisdizione romana, una revisione del processo da parte del Tribunale dell’Inquisizione decise per un’assoluzione plenaria: frati, monache e protonotaro.[2] Senza dubbio Filippo IV, per il finale a lieto fine di questo evento, avrà mandato Velázquez a dipingere il crocifisso che regalò al convento, e, a dire del volgo, inoltre, l’orologio della torre, nei cui rintocchi che segnalano i quarti dopo ogni ora, la gente crede ancora di sentire il suono delle campane a morto per le monache di tanto tempo fa, pieno di indimenticabile malinconia.

            Questo Cristo imponente, avvolto nelle oscurità che in altra epoca furono di figure e teschi che ancora si intravedono nella penombra dello sfondo, ha meritato grandi frasi da parte degli esteti, e Stirling ha detto: «Mai la grande agonia fu dipinta tanto magistralmente», e, Woermann, che è un’opera «grandiosa, silenziosa, sacra».
            È un cristo che attraverso gli anni guadagna in grandezza e travolgente prostrazione, come se ad appesantire la sua testa fosse la miseria crescente dei tempi.

            Don Miguel de Unamuno è colui che è riuscito a dire le migliori frasi su questo crocifisso, la miglior preghiera. Ascoltiamo la poesia nella sua interezza:

IL CRISTO DI VELÁZQUEZ

Nube sei di bianchezza al par di quella

che attraverso il deserto il popolo di Dio

conduce; nube di bianco

come la perla della nera notte

senza contorni; conchiglia dell’infinito,

che è tuo Padre. Nube bianca tinta

dal sangue del sole che entra nella terra

e si prepara a nascere in un altro mondo

dov’è il suo regno. Bianco come quello delle nubi,

spuma dei cieli, i velli

celesti che irrigano la terra.

Come la neve, bianco è il vestito

di questa tua anima resa, Nazareno;

come la neve, lavandaio in terra

che niente sbianca meglio: risplende

come neve, specchio di luce. Si offre

rimanendo sul monte e, accampati,

a godere del suo bianco. Ma all’improvviso

vedi un’altra nube che fa un’ombra di tristezza

sulla tua fronte livida, e ci dice

la soave voce del seno suo: «Questo è mio Figlio,

il mio Figlio amato, mio diletto, ascoltatelo!».

E il niveo albore del tuo divino corpo

nel risorgere dai morti canta

-ci dice-, perché è musica il tuo corpo

divino, e questo cantico muto

-musica degli occhi il suo bianco-

come arpa di David dà refrigerio

alle nostre anime quando già lo spirito

del Maligno le tortura, e le note

dell’armonia dal tuo santo petto

si addormentano le nostre pene stregate

nei nostri cuori caldi. E allora la povera anima,

resa una matassa dalla tetra

mano del Tentatore, che la stritola

e la sfianca, al sentir la sinfonia

del tuo corpo, come un germoglio rinsecchito

a cui linfa torni a scorrere, si raddrizza

e si rimette in posizione di marcia.

Canto sei senza fine né confini,

sei, Signore, la solitudine sonora,

e del concerto che gli esseri lega

l’epifania. Cantano le sfere

grazie al tuo corpo, che è arpa universale…

Con quei suoi occhi che provarono

le tenebre del seno della terra,

il tuo amico Lazzaro, quello di Betania,

pallido rimpatriato dalla tomba,

che viveva in due mondi, ti guardava

morto in croce, e al ricordar la sua morte

piangeva ricordando che lo piangesti.

Coi suoi vergini occhi, a Te fissi

tua madre beveva il tuo pallore,

e tutta la tua passione si trasferiva

dal tuo quieto cuore al suo

crocifisso in infinita pena.

Con occhi d’acquila contemplava

il tuo corpo Giovanni, e dietro Te vedeva

il sole delle ere e i popoli,

segno eterno della Storia. Al vederti

già senza vita, Tommaso resisteva

ad aver fede nei suoi occhi, e con la sua mano

volle toccare la neve della morte

del tuo corpo. Mirava il triste suolo

Pietro disincantato, e dai suoi occhi

una fonte di lacrime cadendo

bagnava il sangue che lasciasti

come impronte nel Calvario. Nicodemo,

scornoso discepolo, di notte,

da lontano, la tua Croce guardava assorto,

sentendo rinascere in petto

nuovamente il cuore. La Maddalena

solo una nube, dietro le lacrime,

vedeva dai suoi occhi: del tutto avvolto

dalla nera notte. Con furore San Giacomo

guardando la città serrava il pugno,

con lo sguardo accigliato. Stefano, tenero giovinetto,

quello dal volto angelico raccoglieva

pietosamente, come reliquie, i ciottoli

intrisi del tuo sangue. E intanto,

lì dal Tarso, Saulo, il fariseo,

sulle sponde del mar Ionio, i suoi occhi

smunti appoggiava con affanno inquieto

sui manoscritti della scienza ellenica,

per essere il tuo Mercurio tra le genti.

E da lontano, perso nelle tenebre,

il germe di Attanasio contemplando

la luminosa oscurità e vedendo

creato il Creatore, la azione paziente,

l’infinità finita, e fatto uomo

Dio, per far dell’Uomo un Dio.

Dal cielo cadde sulla tua fronte

una goccia di sangue

dal curvo becco di un sazio avvoltoio

che veniva dal Caucaso, e il tuo sangue

con quello di Prometeo si mischiò…

Al tramonto del giorno in cui moristi

si addormentò il sole tra nubi di sangue,

tra nubi infauste che annunciavano

il tormentato anelito dell’Uomo.

La povera quaglia, prigioniera in gabbia,

alla quale venne dal mare attratta,

salta, cercando libertà e il volo

sul grano, e nei suoi vani salti

della sua prigione il tetto col sangue

della testa sigilla, e a volte

soccombe così, martire della sua bramosia.

Non è per caso quel sangue del ponente

segnale del doloroso pensiero

della povera anima umana, che con salti

di matto esaminare, volle l’arcata

del cielo azzurro rompere e vedere gli occhi

di Colui che a dar così il tuo sangue ti inviò

come rimedio di quel tragico sangue?

Accecano, crudeli, il condor delle Ande,

lo liberano, e l’accigliato sovrano

delle creste, credendosi nel fondo

della baracca senza luce, spicca il volo,

dritto, a piombo, come se preservassero

le ali dalle rupi di roccia;

va cercando la luce senza occhi, sale,

non la trova, -attento!-, e va salendo,

e giunge alle altezze in cui l’aria

ferma il volo e respiro si assottiglia;

non riesce a respirare, continua a cercare

la luce della vita con le sue orbite cieche,

piega sul suo petto che scoppia

il ricurvo becco, e strapiomba, morto.

Così dell’uomo l’insaziabile spirito

oltre la luce s’alzò, fino alle altezze

in cui non c’è aria per il respiro e per il volo,

cercando, scambiando il fiato col sapere;

ma scendesti Tu, luce della gloria,

la vita che era luce per gli uomini,

luce che nell’oscurità brilla illuminando

tutto ciò che ti è affine in questo mondo

a respirare l’aria unta della valle

mista alla nebbia delle lacrime

e viene dal sudore della penitenza.

Con la tua morte portasti Dio in terra

e con Lui la vera luce;

e di essa ci infondesti le viscere;

dal tuo sangue, che è luce, hai reso sangue

le nostre anime, dando la vista al cieco.

Dio prima ci rese orbi per portarci,

come Saulo, lungo la via di Damasco,

a morire ai tuoi piedi, e con la tua morte

darci la luce, alla cui ricerca andavamo erranti

per le altezze del sapere mortale.

[1]     Titolo originale dell’opera: Cristo crucificado, noto in italiano come il Cristo crocifisso.

[2]     L’autore si riferisce ai fatti del convento di San Placido che vanno ben oltre una storia d’amore illecito. A suscitare l’attenzione dell’Inquisizione sono le accuse mosse nei confronti di frate Francisco García Calderón di eresia. Le leggende e i documenti giudiziari riportano di possessioni demoniache estese a tutte le suore del convento, ma trattasi ovviamente di una forma di isteria di gruppo provocata dalle doti manipolatorie dello stesso frate. Il fatto che tanto scalpore dovette suscitare al tempo degli avvenimenti, continua a suscitare interesse in storici e saggisti di oggi.

Si segnala, a tal proposito, un dettagliato resoconto giudiziario di Carlos Puyol Buil, Inquisición y política en el reinado de Felipe IV: los procesos de Jerónimo de Villanueva y las monjas de San Plácido, 1628-1660; Ed. Consejo Superior de Investigaciones Científicas, Madrid, 1993.

 

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